Pedagogia dello spazio

 

Alta Via Creste di Costabella, Dolomiti. Agosto 2013
Ritratti estratti dal libro ‘Guerra alla guerra’ di Ernst Friedrich


Testo di Marco Morante
convercity


Filorosso attraverso
Walter Benjamin, Immagini di città,
traduzione di Giorgio Backhaus, Marisa Bertolini, Gianni Carchia, Enrico Ganni e Hellmut Riediger, prefazione di Claudio Magris, con un scritto di Peter Szondi, Torino, Giulio Einaudi Editore, 2007 (Stadtebilder, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1963) 
Fiorenza Gamba, Leggere la città – indizi di contaminazioni sociologiche,
Napoli, Liguori Editore, 2009 
Georges Perec, Specie di spazi,
Torino, Bollati Boringhieri, 1989 (Espèces d’espaces, Paris, Editions Galilée, 1974)

 

L’architettura è disciplina complessa, con implicazioni che vanno dalla sfera finanziaria a quelle politica, sociale, urbanistica, e con ricadute ambientali, spaziali, culturali in genere.

Le quinte di un altopiano, l’orientamento di un abitato, le alberature e i percorsi di una piazza, un vicinato ancora abitato, la pendenza e la sequenza di fronti su di un vicolo, le falde di un sottotetto, la disposizione di un letto, l’altezza e la brutalità materica di una classe scolastica, contribuiscono a fare una persona.

Anche per questo l’architettura ha un ruolo sociale, per questo gioca un ruolo pedagogico.
L’arte prima dell’architettura sta nel disegnare spazi, che è cosa ben diversa - ad esempio - dal disegnare oggetti o immagini.

Spazi, emozioni per le persone.
Spazio maestro, capace di lasciare segni profondi nelle coscienze.

Rafforzano, ampliano e sottolineano l’importanza di questi concetti le riflessioni e le raccolte sociologiche di Fiorenza Gamba che (citando a sua volta J.-J. Wunenburger), fa notare come “lo spazio abitato, la creazione dei luoghi, anche e soprattutto modellata nella forma delle città, non è semplicemente un oggetto misurabile, definibile, modificabile, in una parola conoscibile, ma altresì il prodotto di un immaginario sia collettivo sia individuale che trova le proprie radici in forme archetipiche anteriori e indipendenti da qualsiasi esperienza.”
In esso si sedimentano memoria e identità, che dal mio punto di vista è ciò che fa di esso un luogo.
Comunemente idealizzato, lo spazio è corrotto per il suo essere risultato del volere e dell’uso di molti, oltre ad essere transitorio, mai uguale a se stesso ed anzi, dalla sua condizione di mutamento possono derivare le fortune dei propri abitanti.

Corrotto dall’imponderabilità degli eventi rispetto all’ideale, che sia di ciascuno oppure della collettività o di qualche regolamento, e che non vuol dire necessariamente degradato.
Ritrovo nell’autrice i miei stupore e speranza nel constatare il germoglio di forme vitali di creatività, comunicazione e forma comune anche nei cosiddetti non luoghi, tanto da porre il dubbio su cui si incentra questa riflessione, trasversale ai testi, se venga prima l’uovo/uomo o la gallina/spazio: “la pratica della città contrasta il suo degrado. Tra l’uomo e la città si instaura una relazione che è poetica, benché molto contraddittoria, (…) tale per cui gli uomini producono la loro città allo stesso modo in cui la città produce i suoi uomini.”

L’autrice si spinge finanche ad una definizione di minima dell’insediamento umano per cui “il requisito che rende una città tale per i propri abitanti è l’abitabilità”, come spazio in cui vivere bene, ed “è l’abitabilità e non il progetto che definisce la fisionomia della città postmoderna” osserva ancora la Gamba, rimandando, appunto, alla condizione tutt’altro che disegnata dello spazio – di risulta - della città contemporanea e dunque al suo alto grado di corruzione.

Già, la città contemporanea, generalmente quella della dispersione.
Che lo spazio non è solo questione di qualità materica e formale, ma anche di organizzazione.
Quella che ti fa sentire o meno parte di una comunità, e di quale comunità.

La Gamba, nel ripercorrere il lavoro di Robert E. Park sul vicinato quale forma semplice di associazione, rileva appunto come l’allentamento di questa forma di interazione abbia indotto una trasformazione delle relazioni sociali primarie, fino a renderle molto più deboli e sovvertendone le gerarchie di valori: “vengono meno le azioni di controllo e di censura esercitate dal gruppo primario di origine e l’ordine morale, da esse dipendenti, si affievolisce sempre di più”.
Considerazioni che spingono Park alla definizione di regioni morali, quali “luoghi in cui prevale, negli individui che li abitano, una passione e un’inclinazione che assume dimensioni e intensità smisurate” fino ad “esaltare il bene o il male della natura umana”.

Così tutto il testo-raccolta della sociologa torinese ricerca risposte ad una domanda retorica di fondo: “E’ (la città) un insieme di rapporti geometrici e morfologici solidificati nella resistenza di materiali diversi o un flusso di movimenti, di scambi, di incontri, di bit, di reti che mettono in comunicazione cose, persone e idee, in una parola, che producono cultura/e?”

La risposta (evidentemente la seconda) rafforza la convinzione di come la città sia ancora il luogo della possibilità di riscatto, senza interessarsi se debba essere quella la massima aspirazione umana e tralasciando l’esplorazione di forme meno organizzate di habitat insediativo.

Ciò che, però, nella nostra chiave di lettura, risulta più utile è l’individuazione delle relazioni tra forma urbana e vicende umane, aspetto che può essere oltremodo compreso nelle istantanee di Benjamin a seguire.

Città vive, malinconiche o amabili, raccolte in un libro postumo da serbare come straordinaria eredità per chi si interessa di città, in cui “le case, le strade e i volti dei passanti hanno delle crepe che, sebbene dissimulate, annunciano, come le rughe su un viso, lo sgretolarsi della vita e della storia”, come nota Claudio Magris nella prefazione all’edizione italiana.

Un legame somatico tra abitanti e città che, nel caso di Napoli, emerge in modo lampante: dove “l’architettura è porosa quanto la sua pietra” e rispecchia “l’indolenza dell’artigiano meridionale e la passione per l’improvvisazione”.

Insieme alle immagini emergono caratteri.
O anche l’appropriatezza di questa o quella funzione.
E la propensione alla solitudine o alla socialità.

Così a Mosca, dove la Russia di quegli anni “considera l’ambiente sociale l’unico educatore sicuro” e dove anche, però, dentro le chiese è tutto tetro: “una semioscurità proprizia alla cospirazione”.
Così a San Gimignano, dove “le piazze sono cortili, e in tutte ci si sente al riparo” e dove “non soltanto i bambini, ma anche le donne hanno il loro posto sulla soglia di casa, a stretto contatto con la terra, le sue tradizioni e forse le sue divinità. La sedia davanti alla porta è già segno di innovazione cittadina. Dell’inaudita facoltà di star seduti al caffè, poi, si avvalgono unicamente gli uomini.”
Così sulle rive del Mare Nordico, dove “la casa ha ancora confini ben precisi. Una donna, per sedersi davanti alla porta, aveva messo la sedia non perpendicolare ma parallela alla facciata della casa, dentro nella nicchia della porta: in ciò figlia di una razza che fino a duecento anni fa ancora dormiva in armadi.”
Così a Berlino, dove l’autore non sa bene “con quali parole definire il quasi immemorabile senso di sicurezza borghese che emanava da quell’appartamento.”

Luoghi e spazi con propensioni, che fanno ben capire come possa essere diverso formarvisi, vivervi, goderne.

E’ così vero, infatti, che lo spazio ha un ruolo pedagogico, primario proprio nel periodo infantile, che ciascuno di noi condividerebbe il desiderio di quello straordinario osservatore del quotidiano che è Georges Perec:

“che esistessero luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati; luoghi che sarebbero punti di riferimento e di partenza, delle fonti: 
Il mio paese natale, la culla della mia famiglia, la casa dove sarei nato, l’albero che avrei visto crescere (che mio padre avrebbe piantato il giorno della mia nascita), la soffitta della mia infanzia gremita di ricordi intatti…
Tali luoghi non esistono, ed è perché non esistono che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropiato. Lo spazio è un dubbio: devo continuamente individuarlo, designarlo.”

E per farlo, l’autore francese precisa: “l’oggetto di questo libro non è esattamente il vuoto, sarebbe piuttosto quello che vi è intorno, o dentro.”
Che già dovrebbe far riflettere su quel che debba essere l’architettura, e sul dare qualità allo spazio (ed al vuoto) mediante quel che gli disegniamo intorno e dentro.
Fare spazio, fare luoghi, placemaking diremmo oggi secondo una nuova branca della pianificazione.

Tutto ciò chiama in causa però una certa responsabilità, con conseguenti dosi di opportunità, fin dagli spazi più elementari, tanto che “all’inizio, tutte le stanze si assomigliano più o meno, è inutile cercare di impressionarci con storie di moduli e altre baggianate: non sono altro che delle specie di cubi, diciamo dei parallelepipedi rettangolari; c’è sempre almeno una porta e, per ora, abbastanza spesso una finestra (…) insomma, una stanza è uno spazio abbastanza malleabile.”

Con la sua capacità di scomposizione dei fatti e degli spazi Perec sa riportarci al grado zero della quotidianità (penso anche al suo La vita, istruzioni per l’uso – 1978) e, nel caso in esame, allo spazio della quotidianità. Nella nostra disamina pedagogica risulta quantomai utile.

Il suo elementarismo ci scaraventa vicino, vicinissimo: “La porta rompe lo spazio, lo scinde, vieta l’osmosi, impone la compartimentazione: da un lato, ci sono io e casa mia, il privato, il domestico (…) dall’altro, ci sono gli altri, il mondo, il pubblico, il politico. Non si può andare dall’uno all’altro lasciandosi scivolare, non si passa dall’uno all’altro, né in un senso, né nell’altro: ci vuole una parola d’ordine, bisogna oltrepassare la soglia, bisogna farsi riconoscere, bisogna comunicare, come il prigioniero comunica con il mondo esterno.”

Sue esternazioni riguardo i luoghi che più gli piacciono fanno cogliere qualità di questa o quella specie: “Mi piace la mia città, ma non saprei dire esattamente che cosa mi piace. Non credo che sia l’odore. Sono troppo abituato ai monumenti per aver voglia di guardarli. Mi piacciono certe luci, alcuni punti, i tavolini dei caffè. Mi piace molto passare in un posto che non vedevo da tempo.” e poi ancora “mi piace stare in campagna (…) Spesso si ha più spazio che in città, bisogna pur riconoscerlo, e quasi altrettante comodità, e a volte altrettanta calma. Ma mi sembra che niente di tutto ciò basti a stabilire una differenza pertinente.”

E così le ammissioni dell’abitante di città che è in lui, secondo cui “la campagna è un paese straniero. (…) La città mi appartiene, mi sento a casa mia: l’asfalto, il cemento, i cancelli, la rete stradale, il grigiore delle facciate a perdita d’occhio…” invitano a riflettere su come non basti preoccuparsi di quanto sia rassicurante uno spazio affinché questo risulti pedagogicamente positivo.

La verità è che i luoghi ci si attaccano addosso, tanto che Perec per compiere il proprio esercizio di provocatoria apolidia deve inserirlo in un paragrafo detto dell’alternativa nostalgica (e fasulla): “avere solo i vestiti che si portano addosso, non conservare niente, vivere in albergo e cambiarlo spesso, e cambiare città, e cambiare paese; parlare e leggere indifferentemente quattro o cinque lingue; non sentirsi a casa propria in nessun luogo, ma bene quasi ovunque”, descrivendo una “fantasia” alienante quanto poco rassicurante, appunto.

Parimenti poco rassicurante e, in qualche caso, per nulla scontata ne risulta l’elencazione della specie inabitabile, in cui annovera “l’architettura del disprezzo e della scena, la glorietta mediocre dei grattacieli e degli edifici, le migliaia di sgabuzzini stipati gli uni sugli altri, la sbruffoneria micragnosa delle sedi sociali (…) il rinchiuso, il vietato, l’ingabbiato, l’inchiavistellato, i muri irti di cocci di bottiglia (…) l’ostile, il grigio, l’anonimo, il brutto, i corridoi del metrò, i bagni pubblici, i capannoni, i parcheggi, i centri di smistamento, gli sportelli, le camere d’albergo, le fabbriche, le caserme, le prigioni, i manicomi, gli ospizi, i licei, le corti d’assise, i cortili delle scuole”.

le trincee, aggiungeremmo noi incuriositi dall’accostamento e ben consapevoli dell’azzardo,
a cento anni dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.

Troppo spesso - anche in tempo di pace - si progettano ferite, anziché spazi.

Ed è per questo che, come nota ancora Perec, “vivere, è passare da uno spazio all’altro, cercando il più possibile di non farsi troppo male.”