L’Effimero

 

Gran Sasso d’Italia, 2015/2016


testo di Alberto Bazzucchi

Già in una lettera del ’72, indirizzata all’amico Pasquale Scarpitti, Ennio Flaiano descriveva l’Abruzzo interno come “un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne … il Gran Sasso e la Majella…”. Quasi quarant’anni dopo, Paolo Rumiz, nel racconto di una lunga traversata nei luoghi più reconditi delle Alpi e degli Appennini, infila spesso termini come “isole”, “capodogli”, “arcipelago” e intitola il libro che ne verrà fuori “La leggenda dei monti naviganti”.

Anche solo a sorvolarle distrattamente, le immagini che Antonio Di Cecco dedica al Gran Sasso trasmettono l’impressione che la montagna non possa fare a meno di una qualche metafora marina. Il movimento disciplinato di un approdo, la cupezza avvolgente del mare notturno, un veliero, forse. Una osservazione paziente per catturarne non la fissità ma la precarietà, la fragilità. Per ottenere questo non devi sentirti uno che vuole fermare qualcosa, catturarla, magari per avere qualcosa da mostrare o, persino, da insegnare. Devi dismettere l’arroganza. Abitare quei luoghi con intimità e distanza. Non bisogna fare altro.
La questione è l’altezza. Ma lo sguardo che ne deriva, si soffermi su uno sciame di nuvole che sguscia tra le vallate o si innalzi verso il buio stellato, non è altero, non ha una fisiologia velleitaria. Non è tanto il soffermarsi dell‘obiettivo sul paesaggio ma il lasciar passare il paesaggio nell’obiettivo. Nel quieto vagabondare gli piace sentire sotto i piedi il sentiero, nell’aria che non sta mai ferma. Una disciplina. Una forma d’attenzione oscillante, in cui l’osservatore e l’oggetto osservato arrivano spesso a cambiare di ruolo. Allora è l’ambiente a indagare gli umori di chi lo guarda.